Pubblichiamo articolo sui recenti disastri ambientali.
L’Italia ha passato una decina di giorni terribili. Tutti hanno visto cosa è accaduto: gli impatti sul territorio di eventi meteorologici estremi hanno prodotto distruzione e morte. Qui sopra due immagini simbolo: la casa di Casteldaccia in Sicilia e il bosco abbattuto nel bellunese.
Oggi, in un momento in cui la fase critica appare terminata, forse conviene trarre qualche insegnamento da quanto accaduto.
Innanzi tutto, il rischio, in particolare il rischio idro-geologico, può essere calcolato come il prodotto di due fattori, uno che rappresenta la pericolosità dovuta all’influsso più o meno grande di agenti esterni (come quelli meteo-climatici) e uno che rappresenta lo stato di vulnerabilità del territorio su cui questo primo fattore agisce. In formule si potrebbe scrivere:
R = P x V,
dove R = rischio, P = pericolosità, V = vulnerabilità.
Lo so che esistono definizioni diverse, per cui il secondo fattore in effetti è sostanzialmente “spacchettato” in due (si veda, ad esempio, sul sito della Protezione civile), ma a me qui interessa in particolare separare gli influssi meteo-climatici da tutte le altre attività antropiche che portano ad aumentare la vulnerabilità, cosa che fa già questa più semplice definizione.
Ovviamente, in quanto fisico del clima, io mi occupo soprattutto del fattore P, e per questo sono stato chiamato ad intervenire sui media. Tuttavia, la necessità di adattamento a determinati eventi estremi porta inevitabilmente a discutere anche del secondo fattore, cosa che farò brevemente anche qui.
Ma andiamo con ordine. Innanzi tutto, gli eventi meteorologici cui abbiamo assistito sono un indizio che sta aumentando il fattore della pericolosità? In sostanza, i cambiamenti climatici stanno portando ad eventi estremi più frequenti e/o più intensi? E, nello stesso tempo, quanto è stata anomala la situazione meteorologica che si è venuta creando in questi giorni passati? Senza entrare in una specifica illustrazione della situazione meteo, basterà dire che un’onda atmosferica particolarmente profonda è scesa sul Mediterraneo occidentale, “risucchiando” aria calda e umida dall’entroterra africano e dal Mediterraneo meridionale, che si è poi spostata velocemente e con venti molto forti sulla nostra penisola. Una descrizione più dettagliata di quanto è successo a fine ottobre la si può trovare qui. Poi la situazione ha presentato un’altra depressione che ha continuato a guidare venti carichi di umidità sulle nostre regioni.
Ma ora vanno fatte alcune considerazioni. La frequenza di certi fenomeni dipende sostanzialmente da quante volte si presenta una determinata situazione di circolazione delle masse di aria che conduce ai fenomeni stessi. La loro intensità dipende invece in gran parte dall’energia disponibile in atmosfera in quel momento e dagli scambi tra superficie e atmosfera. Nel determinare la frequenza di certe condizioni di circolazione al cambiare del clima, cioè in un regime di riscaldamento globale, non siamo ancora molto bravi, tanto che negli stessi ultimi rapporti IPCC non ci si sbilancia molto sull’aumento del numero di eventi estremi di pioggia o vento a livello globale (le ondate di calore invece sì, si sa che aumenteranno con grandissima probabilità).
Nel Mediterraneo, tuttavia, la situazione appare un po’ diversa. Infatti, il riscaldamento globale ha portato ad una amplificazione o spostamento verso nord della cella equatoriale di Hadley della circolazione generale dell’atmosfera, quella responsabile della presenza di anticicloni sul deserto del Sahara. Con tale fenomeno, nel Mediterraneo assistiamo sempre più spesso all’ingresso di intensi anticicloni africani nel semestre caldo, quando fino a qualche decennio fa le estati erano dominate dall’anticiclone delle Azzorre che ci proteggeva dalle perturbazioni euro-atlantiche, ma anche dal “feroce” caldo africano. In generale, sembra che la circolazione si stia mettendo sempre più spesso nella direzione sud-nord, aumentando la variabilità e facendo sì che sempre più spesso avvengano duri scontri di masse d’aria di origine diversa, che creano proprio precipitazioni convettive intense. Più in particolare, poi, sembra che aumentino le cosiddette “situazioni di blocco”, in cui su un territorio per un lungo periodo si presentano condizioni dello stesso tipo, ad esempio anticicloni “feroci” o piogge intense e persistenti. Si sta ancora studiando se nel Mediterraneo questa tendenza sia destinata a continuare o addirittura ad accentuarsi, ma direi che gli indizi sono piuttosto preoccupanti. Vi segnalo giusto tre articoli recenti che trattano di questo tema: si veda qui, qui e qui.
Ma se non siamo ancora sicuri sull’aumento della frequenza di certe situazioni di circolazione pericolose, possiamo dire molto di più sull’aumento dell’intensità dei fenomeni, perché questa dipende sostanzialmente dalle quantità di vapore acqueo e calore che entrano in atmosfera dal suolo (soprattutto dai mari). Mentre la circolazione dipende dalla dinamica dei moti atmosferici, che è molto complessa a causa della conformazione così variegata del pianeta Terra (confini tormentati tra mare e terra, orografia tormentata, ecc.) e su cui l’influsso dei gas serra è mediato da processi complessi, l’intensità dei fenomeni dipende dagli scambi termodinamici alla superficie, che rappresentano un settore in cui la nostra conoscenza è molto robusta.
In particolare, il riscaldamento globale e i mari sempre più caldi portano a due fenomeni specifici: la loro maggiore evaporazione e la maggiore “fornitura” di calore/energia all’atmosfera. L’aumentata evaporazione fa sì che più molecole di vapore acqueo entrino in atmosfera, e queste molecole sono proprio i “mattoni” con cui si “costruiscono” le nubi: queste ultime sono formate infatti di vapore divenuto acqua liquida o ghiaccio. Abbiamo dunque più materiale per formare le nubi.
D’altro canto, il maggiore apporto di energia all’atmosfera è un contributo ancora più critico, in quanto – come dico spesso – l’atmosfera non è come noi che abbiamo il libero arbitrio. Lei deve seguire le leggi della termodinamica, e per questo non può far altro, prima o poi, che scaricare violentemente questo surplus di energia sul territorio, con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti.
Insomma, molto probabilmente il primo fattore di quella equazione che definisce il rischio sta aumentando a causa del riscaldamento globale e dei conseguenti cambiamenti climatici. Tra l’altro, anche se non dovesse aumentare la frequenza della totalità degli eventi, è chiaro che, a parità di questa, la classe di quelli più violenti aumenterebbe di numero, eccome. Cosa dire poi della vulnerabilità del territorio?
Come scritto in precedenza, non sono un esperto di questo settore, che è più tipicamente di competenza dei geologi. Tuttavia, mi pare evidente come questo secondo fattore stia aumentando forse anche più sensibilmente del primo. In particolare, l’antropizzazione del territorio, il suo uso non corretto (cementificazione del suolo, caseggiati costruiti su terreni a rischio inondazione o frana, ecc.) conduce a situazioni di rischio aumentato anche a parità del primo fattore.
Che lezioni dobbiamo trarre, allora, dai fatti accaduti e da questa breve analisi? Le lezioni sarebbero sicuramente tante. Ma qui mi limito a trarne un paio.
Prima di tutto, per rallentare i cambiamenti climatici occorre mitigare, cioè diminuire le nostre emissioni di gas serra da combustioni fossili e utilizzare meglio il suolo, sia in agricoltura che con lo stop alla deforestazione e con una riforestazione ove possibile. Però, siccome alcuni danni climatici sono già presenti ed inevitabili, bisogna anche adattarsi. In particolare, da tempo si studia su come minimizzare i rischi che derivano dai cambiamenti climatici con l’adattamento, tanto che anche nel nostro Paese si è elaborata una Strategia nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici e un Piano nazionale di adattamento, più operativo, è in “dirittura di arrivo”. Per quanto riguarda il rischio idro-geologico, ciò significa, sostanzialmente, preparare certamente il territorio agli eventi che già avvengono, ma anche pensando all’intensità (se non alla frequenza) maggiore di questi eventi in futuro.
Ebbene, basta tutto ciò? Sicuramente no. Infatti, non si può sperare che la meteorologia ci consenta di avere previsioni su singoli punti del territorio da oggi a 10 giorni, magari ogni 3 ore. Questa è fantascienza (o una truffa, come volete). Ci sono dei precisi limiti teorici di predicibilità in atmosfera che non consentono con i modelli attuali di fare tutto ciò. Oggi però i nostri modelli ci consentono di avere previsioni affidabili a 2 o 3 giorni per gli scopi di protezione civile, ma su un’area piuttosto estesa. In queste condizioni, solo i sindaci e i loro collaboratori possono sapere quanto incida una certa quantità di precipitazione (prevista dai modelli) nei vari luoghi del loro comune. E’ necessaria, dunque, la predisposizione urgente di Piani comunali di adattamento.
Infine, credo che sia necessario un grande piano di informazione e formazione sugli impatti idro-geologici dei cambiamenti climatici, per tutti: dai decisori politici, agli amministratori locali, all’intera popolazione. Oggi in Italia non c’è una cultura del rischio: spesso, ad esempio, si pensa che fare un abuso sia una “furbata” del genio italico che, quando può, aggira la legge. Non si percepisce che questo può dire mettere a rischio l’incolumità personale e quella della propria famiglia, nonché la perdita dei propri beni.
Tra l’altro, questo piano di informazione e formazione è una delle cose che un Comitato scientifico di 19 scienziati che si occupano di cambiamenti climatici e relativi impatti ha chiesto recentemente a tutti i partiti politici con l’iniziativa di La Scienza al voto, ottenendo un impegno formale. Oggi che non siamo più in campagna elettorale è il momento di agire concretamente perché il Paese non si debba trovare in maniera ricorrente in emergenze come quella dei giorni scorsi…http://pasini-lescienze.blogautore.espresso.repubblica.it